giovedì 4 marzo 2010

Un giorno ad Istanbul in giro per Çukurcuma


Perché Çukurcuma? Perché qui l’atmosfera è unica e imperdibile per chi si trova a passare per l’Istanbul europea di Beyoğlu.
Semplicemente camminare per le strade di questo micro quartiere è una piccola, rilassante esperienza da riportarsi in valigia tra i ricordi. Çukurcuma è piena di negozietti di antiquariato e di rigattieri che si fermano agli angoli delle strade con i loro carretti di legno sgangherati carichi di oggetti dimenticati. Qui un çay (il tè turco servito nei bicchierini a forma di tulipano) o un succo di melograno, sono deliziosi pretesti per indugiare con lo sguardo sull’andirivieni lento di queste strade cosmopolite, dove tante lingue si sovrappongo e dove donne interamente velate di nero s’incrociano con look metropolitani. Çukurcuma può offrire soste interessanti e inconsuete ai suoi visitatori, a condizione che si abbia voglia di passeggiare senza fretta e di curiosare. Tutto è concentrato in tre, quattro vie, Faik Paşa Sok., Turnacıbaşı Cad., Ağa Hamami Sok., Çukurcuma Cad. … e tutto è abbastanza silenzioso e calmo. Faik Paşa Sok., piena di antichi palazzi, si svela con discrezione. Nessuna vetrina o insegna, ad esempio, richiama l’attenzione su A La turca, una bellissima dimora su tre piani di fine Ottocento oggi trasformata in un elegante negozio d’antiquariato. Se ad accogliervi è il padrone di casa, Erkal Aksoy, esperto di tappeti e kilim, è possibile che vi offra un tè e una piacevole chiacchierata davanti al camino acceso, tra lo sfavillio di splendidi oggetti antichi. Quasi di fronte, merita una visita la galleria Nahide che raccoglie lavori di interessanti artisti turchi e dove è possibile trovare piccoli pezzi di design e di arredo. Più giù nella stessa strada è consigliabile per gli appassionati di fotografia visitare le esposizioni della Elipsis Gallery, che propone sempre autori internazionali e mostre di alto livello.
Ancora su Faik Paşa, un diverso mondo antiquario, esotico e asiatico, si dischiude da Moderntarih, dove la maggior parte di mobili, arredi e sculture proviene dalla Cina, dal Giappone, dall’India e dalla Turchia orientale.
Se si vuole sorseggiare un çay, all’incrocio con Turnacıbaşı Sok., il Café 49 offre una calda atmosfera, cortesia e dell’ottima musica. Specchi, divani e tavolini sono in vendita con prezzi visibili nel menu! Da dietro le vetrate si vede scorrere la vita quotidiana di questo quartiere con i suoi venditori ambulanti, gli artisti che qui hanno scelto di vivere, i ragazzi che tornano da scuola... Appena fuori è imperdibile per i nostalgici degli anni Settanta, Müstamel Eşya evi, un negozietto di modernariato interamente dedicato a mobili e complementi d’arredo dei mitici Seventies e dintorni. Per chi vuole poi continuare il giro all’inseguimento di memorie perdute, proprio di fronte, De Form Muzik, propone una grande varietà di dischi in vinile da collezione. A pochi passi, all’angolo, superato l’incrocio con Faik Paşa, da quelle che sembrano semplicemente le grandi finestre di un’abitazione si scorgono invece gli interni del raffinato negozio d’antiquariato di Ayşe Orberk: tre piani di arredi, lumi, tessuti di gran classe, esposti in un’ atmosfera avvolgente. Splendide composizioni di fiori, bacche, pigne e melograni incantano dalle vetrine chi passa. In cima al negozio, da una terrazza su cui riposano le pance di antiche giare turche, si gode di una bella vista sulle stradine di Çukurcuma.
Continuando il giro, se non si vuole rinunciare al rilassante piacere di un bagno turco, il Tarihi Ağa Hamamı è un piccolo hammam tradizionale di quartiere del XV sec., misto (cioè con un’unica sala per gli uomini e le donne).
Nella vicina Altıpatlar Sok. è interessante entrare nel negozio di Leyla traboccante di tessuti ottomani, autentici kaftani d’epoca, antiche stoffe ricamate, scialli, cuscini e merletti d’antan. Da Inbak, nella stressa strada, si trovano invece begli utensili artigianali in legno d’ulivo (taglieri, mortai, mestoli, ciotole) provenienti dalla costa egea, dell’olio d’oliva di buona qualità, saponi naturali, miele e conserve. Da provare, nella parte superiore del locale adibita a bar, la spremuta fresca di mandarino.
Sotto la moschea verde, la Firuzağa camii, c’è sempre tutto un brulicare di gente nei tavolini all’aperto dove si va a prendere il tè o a gustare la pide (una sorta di pizza turca). I tantissimi stranieri che bazzicano la zona non sono turisti, ma abitanti del quartiere che hanno fatto di quest’angolo il loro punto d’incontro. Prima di lasciare Çukurcuma vale la pena concedersi un ultima sosta al Cezayir (Hayriye Caddesi), accogliente e chic bar-ristorante, all’interno di uno storico edificio un tempo di proprietà italiana, con una splendida zona giardino aperta in estate e ambienti davvero molto cool!

Nei pressi della torre di Galata. Istanbul

La discesa per la strada dei musicisti verso Galata è piacevole o perché qualcuno prova uno strumento da comprare e allora si sentono i ritmi di tamburi o le corde di un liuto turco, o per i banchetti di frutta multicolore in fondo alla via, vivaci, freschi e invitanti. Prima di lasciare la Galip Dede Caddesi, è bene fermarsi qualche minuto per bere un succo misto (karıscık) d’arancia e melograno appena spremuti. A questo punto, invece di cedere alla tentazione di raggiungere subito la Torre di Galata, è davvero consigliabile andare alla scoperta della Serdarı Ekrem Sokak, la prima traversa a destra dell’incrocio. In questa che apparentemente è una strada come tante altre, dopo aver percorso pochi metri, si comincia a cogliere un’atmosfera speciale. Qui, infatti, stanno scegliendo di stabilirsi tanti creativi di Istanbul che hanno apprezzato l’anima un po’ appartata di questo luogo nonostante la vitalizzante e benefica vicinanza alla Torre. Il carattere ibrido e le energie di molti giovani talenti che qui continuano ad aprire studi, atelier, gallerie, fanno di Serdarı Ekrem Sokak un vivaio della città soprattutto relativamente al design e alla moda. Lunapark (17/b) è uno studio di progettazione di design rivolto soprattutto agli addetti ai lavori. Decisamente più accattivante per chi si trova a passare è invece il Building, riuscito incrocio tra una galleria d’arte, un bar-ristorante e un fashion-store.

Le esposizioni proposte sono interessanti, soprattutto quelle fotografiche. Nei grandi tavoli centrali è possibile mangiare, bere, lavorare al computer e la scelta di cocktail è ampia. In fondo al locale si apre una sezione dedicata alla moda: dodici stand, ognuno di un giovane fashion designer turco oltre a un’esposizione di stravaganti scarpe di Zeynep Duyğulu e una proposta di singolari collari in cuoio per cani e gatti straviziati.

Serdarı Ekrem Sokak, per ciò che concerne la moda, si sta configurando deliberatamente come luogo contrapposto a Nişantaşı, il distretto di Istanbul delle grandi firme internazionali.
In quest’angolo nascosto all’ombra propiziatoria della Torre di Galata, hanno infatti deciso di aprire i loro negozi giovani ma già apprezzate stiliste turche come Bahar Korçan e Simay Bülbül ( le creazioni di quest’ultima nascono da originali mescolanze di sete e leggeri trafori di cuoio).
Ma Serdarı Ekrem Sokak mantiene ancora un’identità sospesa tra un futuro promettente e l’anonimato di un passato che non è del tutto alle spalle, così accanto ai nuovi moderni locali, curatissimi nei dettagli, resiste ancora la bottega di qualche artigiano che lavora il rame o intaglia il legno e molti bei palazzi antichi attendono di essere ristrutturati. Qui si incontrano il laboratorio di ceramiche di Sadullah Çekmece dove si reinventano i tradizionali motivi di Iznik e Kütahya ed accanto il negozio di mobili vintage Stok 60/70. Proseguendo oltre si raggiunge la suggestiva Chiesa ottocentesca di Crimea e proprio davanti, dall’altra parte della strada, si trova la piccola deliziosa liuteria di Şeyda Hacızade, con corolle di ortensie secche che pendono dai vetri, una maschera veneziana alla parete e altri souvenirs d’Italie ( Şeyda ha studiato scenografia a Venezia e parla perfettamente italiano). Rifacendo il percorso a ritroso in direzione della Torre ci si può fermare a prendere un tè da Mavra, caffè che offre un’ atmosfera avvolgente, buona musica e vari gadget fumettistici da acquistare.
Raggiunta e ammirata la Torre di Galata, a destra nella piccola Kule Çıkmazı Sok. da Hammam si possono trovare degli ottimi teli da bagno in cotone, lino e bambù, ciotole di rame e saponi naturali ad ottimi prezzi. Attorniando la Torre scendendo per la Kuledibi Camekan Sok. vari negozietti possono incuriosire, ma l’unico in cui valga la pena di fare acquisti è Lalay che offre una buona scelta di biancheria per la casa rigorosamente made in Turkey. A questo punto ci si è meritati un aperitivo (analcolico!) sulla terrazza di Konak, con vista mozzafiato su Bosforo, Isole dei Principi, Corno d’oro e naturalmente sulla Torre di Galata corteggiata come sempre, al tramonto, dai voli incrociati dei gabbiani.

lunedì 7 dicembre 2009

Le streghe e le fate di umit unal


Non è raro che entrando da Doors, il negozio atelier di Ümit Ünal ad Istanbul (Tünel, Ensiz Sokak, 1B), la musica sia quella degli Antony and the Johnsons.
I suoi abiti sembrano creati per donne sospese in un aura magica, un po’ streghe e un po’ fate. Ma Ümit smentisce subito. La sua moda insegue la vita. La magia è nella vita e non al di fuori di essa, è nelle lacrime, nella musica, nei veri amori, nel destino (per una delle sue collezioni si è ispirato alle Moire). La magia è nella bellezza che travalica l’esteriorità per comprendere la profondità della mente e le passioni del cuore. Anche Antony, dice, alludendo alla musica che scorre mentre parliamo, è la magia della vita.
Così, i tocchi fatati dei suoi abiti non aspirano al sogno, ma emergono dalla realtà vissuta. Ümit Ünal ama i segni sedimentati nelle cose e cerca di trasporli nella sua moda. Fashion designer? Preferisce definirsi un archeologo alla ricerca di dettagli del passato, di materiali vintage, di colori spenti, polverosi, dimenticati… Non a caso l’ultima collezione è stata ispirata alla comunità Amish della Pennsylvania il cui stile di vita è fermo a fine Ottocento.
Ümit Ünal ha cominciato a scrivere le sue lettere di fili cuciti sulla stoffa all’età di otto anni accanto al padre al lavoro. Lo fa ancora oggi lasciando sui suoi abiti le tracce del mestiere, con le cuciture delle imbastiture svolazzanti. È il suo modo di comunicare. In una realtà in cui tutto è prodotto e consumato rapidamente, spera che i suoi abiti realizzati per il prêt-à-porter con la lunga cura propria dell’haute couture, aiutino a recuperare e ad assecondare il tempo della lentezza, l’unico che per Ümit conduce verso ciò che è vero e profondo. Alle pareti di Doors, sotto le grucce dei vestiti, lascia i suoi splendidi disegni e piccoli messaggi a chi legge. Su un grande tavolo, melograni, pane, pere, piccoli fiori parlano di una vita quotidiana che per Ümit, scorre lì, in quel luogo, nell’abbraccio di un lungo amore consolidato dalla conoscenza reciproca. Con lui lavora, infatti, una piccola comunità di talenti costituita da familiari e cari amici. Al piano di sotto c’è la loro cucina. Doors, è per Ümit un luogo le cui porte devono aprirsi perché tutto possa scorrere e arrivare al cuore della gente. Per lui i luoghi sono importanti. Riconosce che la sua moda, spesso così modernamente metropolitana, ha un’anima istanbuliota. Istanbul è una città che corre verso il futuro, ma il suo enorme carico di passato piega gli opposti a unirsi e a convivere. Allo stesso modo le forme innovative delle sue creazioni si vestono di vecchi colori. E poi continuano ad andare. Quando per strada incontra una donna con addosso un suo vestito, seduta al tavolo di un bar a sorseggiare un tè, in quel momento sente il successo del suo lavoro, perché un suo abito è veramente entrato nella vita, come una cosa qualunque, come un sorriso, del cibo, un soffio di vento…
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(La gazzetta di Istanbul, Anno XVII, novembre 2009, n. 11)

giovedì 24 settembre 2009

I giardini segreti di Palmira in Siria

















Certo quando si arriva a Palmira, l’impatto con le sue meraviglie archeologiche, con le sue colonne, con i suoi templi che affiorano piantati da millenni nel mezzo del deserto siriano, con la stessa superbia della loro regina Zenobia, si è appagati al punto da lasciare il verde scuro e fermo dei palmeti poco oltre, solo come sfondo esotico di tanta bellezza. Invece l’oasi di Palmira è un’esperienza in sé. E comunque già il vedere i templi da dietro gli alti ombrelli delle palme merita l’allungarsi in una passeggiata tra i muri di pietra e fango che nascondo i segreti giardini dell’oasi. Kahtan, mi saluta mentre guardo i rami carichi di melograni acerbi che si piegano fuori dagli orli dei muri e ci invita nel suo giardino. Non immaginavo che nell’oasi ci fossero tanti diversi giardini e in effetti sono nascosti alla vista di chi passa, per questo è necessario un invito. Ci accomodiamo all’ombra di una larga tettoia di tronchi e di rami di palme secche. Kahtan accende un fuoco per il tè alla cannella, poi si siede con noi e ci porta delle olive e un delizioso sciroppo di datteri. Ci spiega che l’acqua della falda viene erogata a turno in ogni giardino attraverso un sistema di canali che scorrono lungo i muri di cinta e poi ci mostra le sue piante. Le palme, prima di tutto, tante, in alto, lì a raccogliere il sole più duro e a dare datteri e ombra. Poi, sotto, gli ulivi, larghi su una terra chiara indistinguibile dalla sabbia, e i melograni che fuggono festosi dalle recinzioni. In basso, delle tenere piante di cotone appena germogliate. Il tè è pronto. I bicchierini di vetro sono sistemati su un tronco di palma che fa da tavolino. Anche i datteri sono dolcissimi. Kahtan tira fuori una sorta di taccuino dove annota in caratteri arabi la pronuncia di alcune parole nelle lingue di chi viene a trovarlo, in modo da memorizzarne il suono. In genere sono tedeschi o inglesi quelli che si avventurano tra i sentieri dell’oasi. Ci serve ancora del tè e apre un bel libro francese sulla Siria in cui c’è una sua foto nel capitolo dedicato a Palmira: Palmyre. Le Bédouin Kahtan et la palmeraie. Quando andiamo via dal suo giardino, portiamo con noi un piccolo pacco con i datteri di quel pezzo di oasi e, negli occhi, i gesti eleganti di Kahtan, flessuoso nella sua tunica chiara, con la sua kefiah rossa dietro i rami degli ulivi.

lunedì 21 settembre 2009

Le maioliche Ceart: l'unicità dell'imperfezione

Salvatore Messina qualche anno fa ha scelto di aprire il suo laboratorio di ceramica (Ceart) in una stradina un po’ defilata del borgo medievale di Erice. Per prima cosa c’è l’amore per la materia, per la terra lavorata con le mani, per i pigmenti di colore che aprono vie impreviste ai giochi cromatici dopo la cottura. Spesso la creta è quella impura usata nelle prime ceramiche preistoriche che Salvatore ha ritrovato attraverso i suoi studi di archeologia navale. L’osservazione del vasellame più antico gli ha confermato il suo amore per l’imperfetto. Ha ripreso l’antichissima tecnica di lavorazione della creta senza il tornio, ottenendo forme meno precise, ma più amate per le loro curve inquiete. A ciò è arrivato passando anche attraverso lo studio del design. Il contatto con l’oggetto perfetto nella forma e la sua potenzialità seriale, lo hanno portato per contrasto, a valorizzare nelle sue maioliche l’unicità di ciò che è irregolare, impreciso, irripetibile. Nel suo lavoro lascia sempre un ampio margine di sperimentazione in cui, nonostante la conoscenza della tecnica, c’è lo spazio prezioso del fortuito, del casuale, dell’inatteso. L’effetto imprevedibile può far risplendere gli smalti di luminescenze e di sfumature tanto più preziose perché inaspettate, mentre i piccoli fallimenti consolidano l’esperienza nel trattare la materia. Nell’azzurro, nel verde, nel bianco, nel giallo passano le suggestioni della sua Sicilia e di Erice in particolare. Grandi cupole, pesci panciuti, acquasantiere, candelabri… le forme sono esagerate, traboccanti di virgole di creta, straripanti di decori e di smalti. E’ immediato il richiamo al Barocco, ma l’intenzione dichiarata è invece quella di recuperare le deformità del Romanico, delle figure fantastiche e mostruose a guardia delle cattedrali. E così i pesci smaltati di verde, gonfi e larghi, si trasformano in paurosi draghi medievali… Le piccole acquasantiere richiamano le atmosfere intime delle chiese di Erice, i fonti battesimali di marmo, ma per Salvatore, oltre che forme di un’antica tradizione, sono richiami alla sua fede e hanno per lui un alto valore simbolico. Così anche le icone dipinte nella sua bottega, che riprendono la tradizione greco-ortodossa della sua famiglia materna, di origine croata. E poi le grandi cupole di maiolica e i campanili spiati ogni giorno sullo sfondo azzurro del cielo o tra le veloci nebbie di Erice e le splendide collane di ceramica che richiamano i millenari monili di epoca fenicia ritrovati nella vicina isola di Mozia... Ognuno di questi oggetti d’arte vive di innumerevoli scaglie, volute, torciglioni, squame, tra cromatismi forti e nello stesso tempo indefiniti che a tratti scivolano lasciando trasparire la nudità dura della creta, la materia primigenia, i pigmenti e la terra che sono trasformati in altro dalla sapienza delle mani, dall’amore per la sperimentazione e dall’irripetibilità del caso.
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domenica 20 settembre 2009

Il cuore verde di Aleppo ( sul sapone di Aleppo )

Giunti ad Aleppo, uno dei piaceri della sosta in questa città millenaria è andare alla ricerca nei suoi leggendari souk del famoso sapone profumato d’alloro. L’origine della produzione del sapone d’Aleppo si perde davvero nella notte dei tempi, ma è intorno al IX sec. che se ne conosce, attraverso lo slancio dei commerci arabi, una prima grande diffusione in ambito mediterraneo. Approda anche nel sud della Francia e a Marsiglia se ne farà una versione che prevede però l’utilizzo del solo olio d’oliva.
Il rituale della lavorazione del sapone d’Aleppo si perpetua immutato ancora oggi da molti secoli.
Si ottiene unicamente da quattro ingredienti naturali: l’olio proveniente dagli estesi e floridi uliveti siriani, acqua, soda e olio di bacche di alloro raccolte nella regione intorno ad Aleppo. Nessun additivo aggiunto, nessun profumo o colorante artificiale. Il sapone di Aleppo è un prodotto biodegradabile al 100%, interamente naturale. La lavorazione inizia a novembre dopo la raccolta delle olive e prosegue fino a febbraio. Nello stesso periodo si raccolgono anche le bacche dell’alloro da cui si ottiene un profumato e preziosissimo olio. In grandi calderoni l’olio di oliva viene sottoposto per giorni ad una lenta cottura, rimestato con acqua e soda. Ottenuta la pasta verde del sapone si aggiunge poi l’olio di alloro la cui quantità variabile dal 5% al 50% ne determina sia il profumo che la qualità. Il sapone viene a questo punto colato e spianato in grandi superfici per terra, dove viene tagliato manualmente in piccoli pani a forma di cubo. (Dei deliziosi piccoli saponi decorati a forma di goccia o di stella sono invece efficacemente usati come antitarme). I lavoratori siedono a questo punto sui saponi stessi per stampigliarli, uno per uno, a mano, con il marchio della fabbrica a indicarne qualità e provenienza, quindi, prendendoli da terra li sovrappongono l’uno sull’altro a formare delle piccole torri verticali in cui rimangono ad essiccarsi per almeno 7-9 mesi. La stagionatura può prolungarsi anche per alcuni anni (non più di cinque ) dando luogo in questo caso ad un sapone ancora più pregiato. E’ in questa fase che il colore verde di questo sapone, per effetto dell’ossidazione all’aria, assume all’esterno un tono giallo bruno .
Il sapone di Aleppo, nei banchi dei souk viene spesso esposto aperto, tagliato a metà, in modo da lasciar apprezzare all’interno il cuore verde d’olivo profumato di alloro che da secoli ne tramanda inalterate la fama e le virtù.
(La Gazzetta di Istanbul, a. XVII, n. 7, luglio 2009)
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venerdì 18 settembre 2009

L'hammam delle donne

Quando si è in poche è il rumore dell’acqua che accarezza più dell’umidità tiepida. L’acqua versata dalle piatte ciotole di rame sui corpi e sul marmo, l’acqua che si raccoglie nelle conche. Ma è soprattutto quella che cade con gocce distanti dalla cupola del soffitto dove si concentrano i vapori. Tutto è così lento che si ha il tempo di seguirle mentre si staccano, si allungano e cadono lasciando una piccola eco sul marmo e nella mollezza dei corpi. In questi scrigni di placenta vaporosa le donne diventano profondamente tali, al riparo dalla presenza degli uomini e a riposo da belligeranze seduttive. Noi occidentali siamo sommersi da immagini che ci restituiscono in ogni istante l’idea di un corpo femminile perfetto, giovane, integro, chiaro, riconoscibile all’infinito, senza variazioni. L’hammam racchiude invece preziosità che abbiamo dimenticato. Quando il calore e l’acqua hanno ormai reso molli le vene e la carne, si avvicinano le donne dell’hammam che trascorrono lì la loro vita a lavare altre donne, con i capelli grondanti, con i volti segnati ed i modi ruvidi del loro lavoro. I loro corpi seminudi sono forti, massicci e i seni grandi e stanchi. Eppure sfregano sulle schiene grandi nuvole di sapone bianco. Ma è il sapone carezzevole, non le loro mani. I loro movimenti sono lontani dall’idea delle mollezze orientali con cui ci si sdraia per la prima volta sui marmi caldi dell’hammam. Servono mani forti per lavare e sfregare e chinarsi mentre i vapori caldi levano il respiro. Si capisce la loro familiarità con i corpi nudi da come si aggirano per i vari ambienti e lavorano con le loro mutande slabbrate, inutili. Qualche volta in una pausa tra turni si riuniscono per terra in una piccola sala attigua, a ridere tra loro con risate vere e a suonare. In un hammam femminile ciò che si dischiude è il corpo della donna, di ogni donna che è venuta lì a compiere un gesto semplice, umile verso il suo corpo, cioè lavarlo. Accanto alle conche di marmo dove si raccoglie l’acqua, ci sono seni che fioriscono e altri che si allungano appassiti, ma alla fine sembra che ogni donna si riconosca nell’altra, in quello che è stato o in quello che sarà e ogni sguardo in fondo è languido e distratto. Lì l’immagine del corpo femminile coincide con la naturalezza delle cose della vita, con quello che succede senza grandi rimedi a fermarne il corso. Potrebbe sorprendere vedere con quanta cura qualcuna passi il sapone tra le pieghe del suo ventre provato, ma proprio in quel gesto si manifesta in tutta la sua presenza di donna, così com’è, come può essere ognuna dietro le porte chiuse, i vestiti e le faccende che portano per le strade. Ed è così anche per i corpi giovani. Anche quelli belli non sono arroganti. Ci sarebbero troppi moniti nell’hammam.
E poi per uno sguardo femminile tutti quei seni, con le loro forme diverse, i loro nei impertinenti, i loro frequenti strabismi, sono in fondo nient’altro che mammelle. Senza gli uomini e rese larghe e morbide dai vapori, quelle sono semplicemente mammelle. Capita, talvolta, che una madre porti con sé il suo bambino. Le donne sono lì per lavarsi. Spontaneamente il pensiero va a cosa rimarrà di queste visioni in un piccolo di quattro anni nei suoi ricordi di adulto. Forse portare nella sua vita di uomo il ricordo di una schiena femminile arcuata sotto lunghi capelli grigi un giorno potrà essergli d’aiuto, anche ad amare.
http://www.premionapoli.it/2008/istambul1.html
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(La gazzetta di Istanbul, Anno XVII, n.12, dicembre 2009)