giovedì 24 settembre 2009

I giardini segreti di Palmira in Siria

















Certo quando si arriva a Palmira, l’impatto con le sue meraviglie archeologiche, con le sue colonne, con i suoi templi che affiorano piantati da millenni nel mezzo del deserto siriano, con la stessa superbia della loro regina Zenobia, si è appagati al punto da lasciare il verde scuro e fermo dei palmeti poco oltre, solo come sfondo esotico di tanta bellezza. Invece l’oasi di Palmira è un’esperienza in sé. E comunque già il vedere i templi da dietro gli alti ombrelli delle palme merita l’allungarsi in una passeggiata tra i muri di pietra e fango che nascondo i segreti giardini dell’oasi. Kahtan, mi saluta mentre guardo i rami carichi di melograni acerbi che si piegano fuori dagli orli dei muri e ci invita nel suo giardino. Non immaginavo che nell’oasi ci fossero tanti diversi giardini e in effetti sono nascosti alla vista di chi passa, per questo è necessario un invito. Ci accomodiamo all’ombra di una larga tettoia di tronchi e di rami di palme secche. Kahtan accende un fuoco per il tè alla cannella, poi si siede con noi e ci porta delle olive e un delizioso sciroppo di datteri. Ci spiega che l’acqua della falda viene erogata a turno in ogni giardino attraverso un sistema di canali che scorrono lungo i muri di cinta e poi ci mostra le sue piante. Le palme, prima di tutto, tante, in alto, lì a raccogliere il sole più duro e a dare datteri e ombra. Poi, sotto, gli ulivi, larghi su una terra chiara indistinguibile dalla sabbia, e i melograni che fuggono festosi dalle recinzioni. In basso, delle tenere piante di cotone appena germogliate. Il tè è pronto. I bicchierini di vetro sono sistemati su un tronco di palma che fa da tavolino. Anche i datteri sono dolcissimi. Kahtan tira fuori una sorta di taccuino dove annota in caratteri arabi la pronuncia di alcune parole nelle lingue di chi viene a trovarlo, in modo da memorizzarne il suono. In genere sono tedeschi o inglesi quelli che si avventurano tra i sentieri dell’oasi. Ci serve ancora del tè e apre un bel libro francese sulla Siria in cui c’è una sua foto nel capitolo dedicato a Palmira: Palmyre. Le Bédouin Kahtan et la palmeraie. Quando andiamo via dal suo giardino, portiamo con noi un piccolo pacco con i datteri di quel pezzo di oasi e, negli occhi, i gesti eleganti di Kahtan, flessuoso nella sua tunica chiara, con la sua kefiah rossa dietro i rami degli ulivi.

lunedì 21 settembre 2009

Le maioliche Ceart: l'unicità dell'imperfezione

Salvatore Messina qualche anno fa ha scelto di aprire il suo laboratorio di ceramica (Ceart) in una stradina un po’ defilata del borgo medievale di Erice. Per prima cosa c’è l’amore per la materia, per la terra lavorata con le mani, per i pigmenti di colore che aprono vie impreviste ai giochi cromatici dopo la cottura. Spesso la creta è quella impura usata nelle prime ceramiche preistoriche che Salvatore ha ritrovato attraverso i suoi studi di archeologia navale. L’osservazione del vasellame più antico gli ha confermato il suo amore per l’imperfetto. Ha ripreso l’antichissima tecnica di lavorazione della creta senza il tornio, ottenendo forme meno precise, ma più amate per le loro curve inquiete. A ciò è arrivato passando anche attraverso lo studio del design. Il contatto con l’oggetto perfetto nella forma e la sua potenzialità seriale, lo hanno portato per contrasto, a valorizzare nelle sue maioliche l’unicità di ciò che è irregolare, impreciso, irripetibile. Nel suo lavoro lascia sempre un ampio margine di sperimentazione in cui, nonostante la conoscenza della tecnica, c’è lo spazio prezioso del fortuito, del casuale, dell’inatteso. L’effetto imprevedibile può far risplendere gli smalti di luminescenze e di sfumature tanto più preziose perché inaspettate, mentre i piccoli fallimenti consolidano l’esperienza nel trattare la materia. Nell’azzurro, nel verde, nel bianco, nel giallo passano le suggestioni della sua Sicilia e di Erice in particolare. Grandi cupole, pesci panciuti, acquasantiere, candelabri… le forme sono esagerate, traboccanti di virgole di creta, straripanti di decori e di smalti. E’ immediato il richiamo al Barocco, ma l’intenzione dichiarata è invece quella di recuperare le deformità del Romanico, delle figure fantastiche e mostruose a guardia delle cattedrali. E così i pesci smaltati di verde, gonfi e larghi, si trasformano in paurosi draghi medievali… Le piccole acquasantiere richiamano le atmosfere intime delle chiese di Erice, i fonti battesimali di marmo, ma per Salvatore, oltre che forme di un’antica tradizione, sono richiami alla sua fede e hanno per lui un alto valore simbolico. Così anche le icone dipinte nella sua bottega, che riprendono la tradizione greco-ortodossa della sua famiglia materna, di origine croata. E poi le grandi cupole di maiolica e i campanili spiati ogni giorno sullo sfondo azzurro del cielo o tra le veloci nebbie di Erice e le splendide collane di ceramica che richiamano i millenari monili di epoca fenicia ritrovati nella vicina isola di Mozia... Ognuno di questi oggetti d’arte vive di innumerevoli scaglie, volute, torciglioni, squame, tra cromatismi forti e nello stesso tempo indefiniti che a tratti scivolano lasciando trasparire la nudità dura della creta, la materia primigenia, i pigmenti e la terra che sono trasformati in altro dalla sapienza delle mani, dall’amore per la sperimentazione e dall’irripetibilità del caso.
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domenica 20 settembre 2009

Il cuore verde di Aleppo ( sul sapone di Aleppo )

Giunti ad Aleppo, uno dei piaceri della sosta in questa città millenaria è andare alla ricerca nei suoi leggendari souk del famoso sapone profumato d’alloro. L’origine della produzione del sapone d’Aleppo si perde davvero nella notte dei tempi, ma è intorno al IX sec. che se ne conosce, attraverso lo slancio dei commerci arabi, una prima grande diffusione in ambito mediterraneo. Approda anche nel sud della Francia e a Marsiglia se ne farà una versione che prevede però l’utilizzo del solo olio d’oliva.
Il rituale della lavorazione del sapone d’Aleppo si perpetua immutato ancora oggi da molti secoli.
Si ottiene unicamente da quattro ingredienti naturali: l’olio proveniente dagli estesi e floridi uliveti siriani, acqua, soda e olio di bacche di alloro raccolte nella regione intorno ad Aleppo. Nessun additivo aggiunto, nessun profumo o colorante artificiale. Il sapone di Aleppo è un prodotto biodegradabile al 100%, interamente naturale. La lavorazione inizia a novembre dopo la raccolta delle olive e prosegue fino a febbraio. Nello stesso periodo si raccolgono anche le bacche dell’alloro da cui si ottiene un profumato e preziosissimo olio. In grandi calderoni l’olio di oliva viene sottoposto per giorni ad una lenta cottura, rimestato con acqua e soda. Ottenuta la pasta verde del sapone si aggiunge poi l’olio di alloro la cui quantità variabile dal 5% al 50% ne determina sia il profumo che la qualità. Il sapone viene a questo punto colato e spianato in grandi superfici per terra, dove viene tagliato manualmente in piccoli pani a forma di cubo. (Dei deliziosi piccoli saponi decorati a forma di goccia o di stella sono invece efficacemente usati come antitarme). I lavoratori siedono a questo punto sui saponi stessi per stampigliarli, uno per uno, a mano, con il marchio della fabbrica a indicarne qualità e provenienza, quindi, prendendoli da terra li sovrappongono l’uno sull’altro a formare delle piccole torri verticali in cui rimangono ad essiccarsi per almeno 7-9 mesi. La stagionatura può prolungarsi anche per alcuni anni (non più di cinque ) dando luogo in questo caso ad un sapone ancora più pregiato. E’ in questa fase che il colore verde di questo sapone, per effetto dell’ossidazione all’aria, assume all’esterno un tono giallo bruno .
Il sapone di Aleppo, nei banchi dei souk viene spesso esposto aperto, tagliato a metà, in modo da lasciar apprezzare all’interno il cuore verde d’olivo profumato di alloro che da secoli ne tramanda inalterate la fama e le virtù.
(La Gazzetta di Istanbul, a. XVII, n. 7, luglio 2009)
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venerdì 18 settembre 2009

L'hammam delle donne

Quando si è in poche è il rumore dell’acqua che accarezza più dell’umidità tiepida. L’acqua versata dalle piatte ciotole di rame sui corpi e sul marmo, l’acqua che si raccoglie nelle conche. Ma è soprattutto quella che cade con gocce distanti dalla cupola del soffitto dove si concentrano i vapori. Tutto è così lento che si ha il tempo di seguirle mentre si staccano, si allungano e cadono lasciando una piccola eco sul marmo e nella mollezza dei corpi. In questi scrigni di placenta vaporosa le donne diventano profondamente tali, al riparo dalla presenza degli uomini e a riposo da belligeranze seduttive. Noi occidentali siamo sommersi da immagini che ci restituiscono in ogni istante l’idea di un corpo femminile perfetto, giovane, integro, chiaro, riconoscibile all’infinito, senza variazioni. L’hammam racchiude invece preziosità che abbiamo dimenticato. Quando il calore e l’acqua hanno ormai reso molli le vene e la carne, si avvicinano le donne dell’hammam che trascorrono lì la loro vita a lavare altre donne, con i capelli grondanti, con i volti segnati ed i modi ruvidi del loro lavoro. I loro corpi seminudi sono forti, massicci e i seni grandi e stanchi. Eppure sfregano sulle schiene grandi nuvole di sapone bianco. Ma è il sapone carezzevole, non le loro mani. I loro movimenti sono lontani dall’idea delle mollezze orientali con cui ci si sdraia per la prima volta sui marmi caldi dell’hammam. Servono mani forti per lavare e sfregare e chinarsi mentre i vapori caldi levano il respiro. Si capisce la loro familiarità con i corpi nudi da come si aggirano per i vari ambienti e lavorano con le loro mutande slabbrate, inutili. Qualche volta in una pausa tra turni si riuniscono per terra in una piccola sala attigua, a ridere tra loro con risate vere e a suonare. In un hammam femminile ciò che si dischiude è il corpo della donna, di ogni donna che è venuta lì a compiere un gesto semplice, umile verso il suo corpo, cioè lavarlo. Accanto alle conche di marmo dove si raccoglie l’acqua, ci sono seni che fioriscono e altri che si allungano appassiti, ma alla fine sembra che ogni donna si riconosca nell’altra, in quello che è stato o in quello che sarà e ogni sguardo in fondo è languido e distratto. Lì l’immagine del corpo femminile coincide con la naturalezza delle cose della vita, con quello che succede senza grandi rimedi a fermarne il corso. Potrebbe sorprendere vedere con quanta cura qualcuna passi il sapone tra le pieghe del suo ventre provato, ma proprio in quel gesto si manifesta in tutta la sua presenza di donna, così com’è, come può essere ognuna dietro le porte chiuse, i vestiti e le faccende che portano per le strade. Ed è così anche per i corpi giovani. Anche quelli belli non sono arroganti. Ci sarebbero troppi moniti nell’hammam.
E poi per uno sguardo femminile tutti quei seni, con le loro forme diverse, i loro nei impertinenti, i loro frequenti strabismi, sono in fondo nient’altro che mammelle. Senza gli uomini e rese larghe e morbide dai vapori, quelle sono semplicemente mammelle. Capita, talvolta, che una madre porti con sé il suo bambino. Le donne sono lì per lavarsi. Spontaneamente il pensiero va a cosa rimarrà di queste visioni in un piccolo di quattro anni nei suoi ricordi di adulto. Forse portare nella sua vita di uomo il ricordo di una schiena femminile arcuata sotto lunghi capelli grigi un giorno potrà essergli d’aiuto, anche ad amare.
http://www.premionapoli.it/2008/istambul1.html
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(La gazzetta di Istanbul, Anno XVII, n.12, dicembre 2009)

venerdì 4 settembre 2009

Il Baglio delle gazze, un esempio di recupero artistico ed etico in Sicilia ai margini di una riserva naturale.

Il recupero del rudere di quest’antica casa rurale siciliana protesa sul mare del golfo di Cofano, vicino Trapani, è stato concepito dai proprietari, Paola Lo Sciuto, artista visiva e Aldo Grompone, produttore teatrale, come un’opera a cui dedicarsi con impegno affinché la storia, le pietre, il lavoro delle mani, i ricordi personali, la natura circostante lasciassero riaffiorare la vita segreta di questo luogo. Nelle stanze e fra le stanze del Baglio delle gazze, questo da sempre il nome della casa, si aprono piccoli spazi irregolari, nascosti, inaspettati, rimasti con la loro anima contadina di una vita realmente trascorsa un tempo tra questi muri. A ciò si sono mescolati i ricordi lontani di Paola quando da bambina si perdeva negli anfratti dell’antico convento di Erice dove viveva sua zia, Suor Stellina. Il segreto dei nascondigli infantili, i segni di altri passaggi, rilasciano il loro mistero tra le pietre di questa casa che respira tra l’alito del mare, un carrubo e il profilo appuntito del monte. Qui ogni cosa è stata fatta dalle mani degli uomini, ogni mattone, ogni coppo, ogni pezzo di pietra spaccata. Così era quando ci vivevano animali e contadini e si usava quel che c’era. Paola ha posato lo sguardo oltre l’uscio, sulle sfumature cangianti della terra intorno. Ogni stanza ha pareti materne, di un colore tiepido che induce al riposo. Nient’altro che intonaco mischiato alla terra raccolta lì fuori. All’esterno i muri rosati di cocciopesto si accendono al tramonto e naturalmente tutti i cocci sono stati pestati a mano con pazienza. Certo, la delicata bellezza di Paola non ne farebbe sospettare il lavoro tenace delle braccia e la presenza caparbia sul cantiere all’alba, prima dell’arrivo dei mastri locali. Da una trave lignea intagliata proveniente da un caravanserraglio afgano ha realizzato un calco con cui ha plasmato degli splendidi mattoni che le ricordano i merletti decorativi della Chiesa Matrice di Erice. Ne ha rivestito le pareti di un incantevole, piccolo hammam in cui si è dedicata personalmente anche alla stesura del tadelakt, l’antica tecnica tradizionale a calce marocchina. Uno scrigno di voluttà dalle iridescenze turchesi e violacee incastonato al centro della casa. Le camere da letto sono di una vuota eleganza monacale. L’essenzialità del bianco predomina sullo sfondo delle nuances date dalla terra alle pareti.
E poi il legno, ma quello in cui il tempo ha trovato la sua dimora. Grandi lampade di ferro e vetro pendono dal soffitto, moltissime candele chiare. Sui muri nudi non ci sono quadri, né testiere per i letti. In verità, nell’amore per il recupero (che qui è insieme dovere etico ed esercizio estetico), Paola ha strigliato la fiancata di un vecchio carretto trovato in un ovile e con corde e drappi bianchi ne ha fatto un’unica testiera, umile e discreta. Sono pezzi di recupero anche le antiche mattonelle siciliane dell’Ottocento della cucina, alcune provenienti da una casa di famiglia, altre comprate al mercato delle pulci di Palermo. I vecchi lavabi in pietra vengono invece da Grecia e Turchia. Sono state riutilizzate persino le mensole dismesse di marmo intagliato che un tempo sorreggevano i balconi delle vecchie case siciliane e ne sono stati fatti solidi fianchi per un grande camino. La luce arriva dalle grandi porte che si aprono sul giardino e più in là sul mare. La cornice è quella della Riserva naturale di Monte Cofano. Il giardino è come un prolungamento di quel paesaggio, così quando le piccole piante selvatiche spontaneamente si riprendono un angolo in mezzo ai fiori, Paola le lascia crescere lì dove sono nate. Per lei è vitale “riportare il selvaggio”nei luoghi ed è fondamentale conoscerlo, rispettarlo, trasmetterne il valore. Immagina che la sua casa possa diventare quasi una base di servizio per la Riserva, punto di partenza di passeggiate botaniche o di trekking, non solo per i turisti, ma soprattutto per la gente del posto, per i bambini. Questa casa, d’altra parte, è divenuta fin da subito un luogo di condivisione, come dimora di charme in cui soggiornare da aprile a novembre, ma anche come centro di incontri culturali e seminari residenziali. Trasmettere la possibilità di vivere e condividere un luogo nel mistero e nella storia delle sue tracce passate, vibrante di una natura che lentamente se ne riappropria, forte del lavoro e dell’esperienza delle mani dell’uomo, riconoscente al mare, alle rocce, alla piante selvatiche… questo è il Baglio delle gazze, il sogno realizzato di Paola, il suo sogno ancora gonfio di futuro. aldo grompone, paola lo sciuto, sicilia, vacanze, visual artist, riserva naturale, monte cofano, erice, sicily, maison de charme, art de vivre, lifestyle, travel, architettura ecologica, baglio, piante spontanee, carrubo, holidays, trapani