venerdì 18 settembre 2009

L'hammam delle donne

Quando si è in poche è il rumore dell’acqua che accarezza più dell’umidità tiepida. L’acqua versata dalle piatte ciotole di rame sui corpi e sul marmo, l’acqua che si raccoglie nelle conche. Ma è soprattutto quella che cade con gocce distanti dalla cupola del soffitto dove si concentrano i vapori. Tutto è così lento che si ha il tempo di seguirle mentre si staccano, si allungano e cadono lasciando una piccola eco sul marmo e nella mollezza dei corpi. In questi scrigni di placenta vaporosa le donne diventano profondamente tali, al riparo dalla presenza degli uomini e a riposo da belligeranze seduttive. Noi occidentali siamo sommersi da immagini che ci restituiscono in ogni istante l’idea di un corpo femminile perfetto, giovane, integro, chiaro, riconoscibile all’infinito, senza variazioni. L’hammam racchiude invece preziosità che abbiamo dimenticato. Quando il calore e l’acqua hanno ormai reso molli le vene e la carne, si avvicinano le donne dell’hammam che trascorrono lì la loro vita a lavare altre donne, con i capelli grondanti, con i volti segnati ed i modi ruvidi del loro lavoro. I loro corpi seminudi sono forti, massicci e i seni grandi e stanchi. Eppure sfregano sulle schiene grandi nuvole di sapone bianco. Ma è il sapone carezzevole, non le loro mani. I loro movimenti sono lontani dall’idea delle mollezze orientali con cui ci si sdraia per la prima volta sui marmi caldi dell’hammam. Servono mani forti per lavare e sfregare e chinarsi mentre i vapori caldi levano il respiro. Si capisce la loro familiarità con i corpi nudi da come si aggirano per i vari ambienti e lavorano con le loro mutande slabbrate, inutili. Qualche volta in una pausa tra turni si riuniscono per terra in una piccola sala attigua, a ridere tra loro con risate vere e a suonare. In un hammam femminile ciò che si dischiude è il corpo della donna, di ogni donna che è venuta lì a compiere un gesto semplice, umile verso il suo corpo, cioè lavarlo. Accanto alle conche di marmo dove si raccoglie l’acqua, ci sono seni che fioriscono e altri che si allungano appassiti, ma alla fine sembra che ogni donna si riconosca nell’altra, in quello che è stato o in quello che sarà e ogni sguardo in fondo è languido e distratto. Lì l’immagine del corpo femminile coincide con la naturalezza delle cose della vita, con quello che succede senza grandi rimedi a fermarne il corso. Potrebbe sorprendere vedere con quanta cura qualcuna passi il sapone tra le pieghe del suo ventre provato, ma proprio in quel gesto si manifesta in tutta la sua presenza di donna, così com’è, come può essere ognuna dietro le porte chiuse, i vestiti e le faccende che portano per le strade. Ed è così anche per i corpi giovani. Anche quelli belli non sono arroganti. Ci sarebbero troppi moniti nell’hammam.
E poi per uno sguardo femminile tutti quei seni, con le loro forme diverse, i loro nei impertinenti, i loro frequenti strabismi, sono in fondo nient’altro che mammelle. Senza gli uomini e rese larghe e morbide dai vapori, quelle sono semplicemente mammelle. Capita, talvolta, che una madre porti con sé il suo bambino. Le donne sono lì per lavarsi. Spontaneamente il pensiero va a cosa rimarrà di queste visioni in un piccolo di quattro anni nei suoi ricordi di adulto. Forse portare nella sua vita di uomo il ricordo di una schiena femminile arcuata sotto lunghi capelli grigi un giorno potrà essergli d’aiuto, anche ad amare.
http://www.premionapoli.it/2008/istambul1.html
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(La gazzetta di Istanbul, Anno XVII, n.12, dicembre 2009)

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