lunedì 7 dicembre 2009

Le streghe e le fate di umit unal


Non è raro che entrando da Doors, il negozio atelier di Ümit Ünal ad Istanbul (Tünel, Ensiz Sokak, 1B), la musica sia quella degli Antony and the Johnsons.
I suoi abiti sembrano creati per donne sospese in un aura magica, un po’ streghe e un po’ fate. Ma Ümit smentisce subito. La sua moda insegue la vita. La magia è nella vita e non al di fuori di essa, è nelle lacrime, nella musica, nei veri amori, nel destino (per una delle sue collezioni si è ispirato alle Moire). La magia è nella bellezza che travalica l’esteriorità per comprendere la profondità della mente e le passioni del cuore. Anche Antony, dice, alludendo alla musica che scorre mentre parliamo, è la magia della vita.
Così, i tocchi fatati dei suoi abiti non aspirano al sogno, ma emergono dalla realtà vissuta. Ümit Ünal ama i segni sedimentati nelle cose e cerca di trasporli nella sua moda. Fashion designer? Preferisce definirsi un archeologo alla ricerca di dettagli del passato, di materiali vintage, di colori spenti, polverosi, dimenticati… Non a caso l’ultima collezione è stata ispirata alla comunità Amish della Pennsylvania il cui stile di vita è fermo a fine Ottocento.
Ümit Ünal ha cominciato a scrivere le sue lettere di fili cuciti sulla stoffa all’età di otto anni accanto al padre al lavoro. Lo fa ancora oggi lasciando sui suoi abiti le tracce del mestiere, con le cuciture delle imbastiture svolazzanti. È il suo modo di comunicare. In una realtà in cui tutto è prodotto e consumato rapidamente, spera che i suoi abiti realizzati per il prêt-à-porter con la lunga cura propria dell’haute couture, aiutino a recuperare e ad assecondare il tempo della lentezza, l’unico che per Ümit conduce verso ciò che è vero e profondo. Alle pareti di Doors, sotto le grucce dei vestiti, lascia i suoi splendidi disegni e piccoli messaggi a chi legge. Su un grande tavolo, melograni, pane, pere, piccoli fiori parlano di una vita quotidiana che per Ümit, scorre lì, in quel luogo, nell’abbraccio di un lungo amore consolidato dalla conoscenza reciproca. Con lui lavora, infatti, una piccola comunità di talenti costituita da familiari e cari amici. Al piano di sotto c’è la loro cucina. Doors, è per Ümit un luogo le cui porte devono aprirsi perché tutto possa scorrere e arrivare al cuore della gente. Per lui i luoghi sono importanti. Riconosce che la sua moda, spesso così modernamente metropolitana, ha un’anima istanbuliota. Istanbul è una città che corre verso il futuro, ma il suo enorme carico di passato piega gli opposti a unirsi e a convivere. Allo stesso modo le forme innovative delle sue creazioni si vestono di vecchi colori. E poi continuano ad andare. Quando per strada incontra una donna con addosso un suo vestito, seduta al tavolo di un bar a sorseggiare un tè, in quel momento sente il successo del suo lavoro, perché un suo abito è veramente entrato nella vita, come una cosa qualunque, come un sorriso, del cibo, un soffio di vento…
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(La gazzetta di Istanbul, Anno XVII, novembre 2009, n. 11)

giovedì 24 settembre 2009

I giardini segreti di Palmira in Siria

















Certo quando si arriva a Palmira, l’impatto con le sue meraviglie archeologiche, con le sue colonne, con i suoi templi che affiorano piantati da millenni nel mezzo del deserto siriano, con la stessa superbia della loro regina Zenobia, si è appagati al punto da lasciare il verde scuro e fermo dei palmeti poco oltre, solo come sfondo esotico di tanta bellezza. Invece l’oasi di Palmira è un’esperienza in sé. E comunque già il vedere i templi da dietro gli alti ombrelli delle palme merita l’allungarsi in una passeggiata tra i muri di pietra e fango che nascondo i segreti giardini dell’oasi. Kahtan, mi saluta mentre guardo i rami carichi di melograni acerbi che si piegano fuori dagli orli dei muri e ci invita nel suo giardino. Non immaginavo che nell’oasi ci fossero tanti diversi giardini e in effetti sono nascosti alla vista di chi passa, per questo è necessario un invito. Ci accomodiamo all’ombra di una larga tettoia di tronchi e di rami di palme secche. Kahtan accende un fuoco per il tè alla cannella, poi si siede con noi e ci porta delle olive e un delizioso sciroppo di datteri. Ci spiega che l’acqua della falda viene erogata a turno in ogni giardino attraverso un sistema di canali che scorrono lungo i muri di cinta e poi ci mostra le sue piante. Le palme, prima di tutto, tante, in alto, lì a raccogliere il sole più duro e a dare datteri e ombra. Poi, sotto, gli ulivi, larghi su una terra chiara indistinguibile dalla sabbia, e i melograni che fuggono festosi dalle recinzioni. In basso, delle tenere piante di cotone appena germogliate. Il tè è pronto. I bicchierini di vetro sono sistemati su un tronco di palma che fa da tavolino. Anche i datteri sono dolcissimi. Kahtan tira fuori una sorta di taccuino dove annota in caratteri arabi la pronuncia di alcune parole nelle lingue di chi viene a trovarlo, in modo da memorizzarne il suono. In genere sono tedeschi o inglesi quelli che si avventurano tra i sentieri dell’oasi. Ci serve ancora del tè e apre un bel libro francese sulla Siria in cui c’è una sua foto nel capitolo dedicato a Palmira: Palmyre. Le Bédouin Kahtan et la palmeraie. Quando andiamo via dal suo giardino, portiamo con noi un piccolo pacco con i datteri di quel pezzo di oasi e, negli occhi, i gesti eleganti di Kahtan, flessuoso nella sua tunica chiara, con la sua kefiah rossa dietro i rami degli ulivi.

lunedì 21 settembre 2009

Le maioliche Ceart: l'unicità dell'imperfezione

Salvatore Messina qualche anno fa ha scelto di aprire il suo laboratorio di ceramica (Ceart) in una stradina un po’ defilata del borgo medievale di Erice. Per prima cosa c’è l’amore per la materia, per la terra lavorata con le mani, per i pigmenti di colore che aprono vie impreviste ai giochi cromatici dopo la cottura. Spesso la creta è quella impura usata nelle prime ceramiche preistoriche che Salvatore ha ritrovato attraverso i suoi studi di archeologia navale. L’osservazione del vasellame più antico gli ha confermato il suo amore per l’imperfetto. Ha ripreso l’antichissima tecnica di lavorazione della creta senza il tornio, ottenendo forme meno precise, ma più amate per le loro curve inquiete. A ciò è arrivato passando anche attraverso lo studio del design. Il contatto con l’oggetto perfetto nella forma e la sua potenzialità seriale, lo hanno portato per contrasto, a valorizzare nelle sue maioliche l’unicità di ciò che è irregolare, impreciso, irripetibile. Nel suo lavoro lascia sempre un ampio margine di sperimentazione in cui, nonostante la conoscenza della tecnica, c’è lo spazio prezioso del fortuito, del casuale, dell’inatteso. L’effetto imprevedibile può far risplendere gli smalti di luminescenze e di sfumature tanto più preziose perché inaspettate, mentre i piccoli fallimenti consolidano l’esperienza nel trattare la materia. Nell’azzurro, nel verde, nel bianco, nel giallo passano le suggestioni della sua Sicilia e di Erice in particolare. Grandi cupole, pesci panciuti, acquasantiere, candelabri… le forme sono esagerate, traboccanti di virgole di creta, straripanti di decori e di smalti. E’ immediato il richiamo al Barocco, ma l’intenzione dichiarata è invece quella di recuperare le deformità del Romanico, delle figure fantastiche e mostruose a guardia delle cattedrali. E così i pesci smaltati di verde, gonfi e larghi, si trasformano in paurosi draghi medievali… Le piccole acquasantiere richiamano le atmosfere intime delle chiese di Erice, i fonti battesimali di marmo, ma per Salvatore, oltre che forme di un’antica tradizione, sono richiami alla sua fede e hanno per lui un alto valore simbolico. Così anche le icone dipinte nella sua bottega, che riprendono la tradizione greco-ortodossa della sua famiglia materna, di origine croata. E poi le grandi cupole di maiolica e i campanili spiati ogni giorno sullo sfondo azzurro del cielo o tra le veloci nebbie di Erice e le splendide collane di ceramica che richiamano i millenari monili di epoca fenicia ritrovati nella vicina isola di Mozia... Ognuno di questi oggetti d’arte vive di innumerevoli scaglie, volute, torciglioni, squame, tra cromatismi forti e nello stesso tempo indefiniti che a tratti scivolano lasciando trasparire la nudità dura della creta, la materia primigenia, i pigmenti e la terra che sono trasformati in altro dalla sapienza delle mani, dall’amore per la sperimentazione e dall’irripetibilità del caso.
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domenica 20 settembre 2009

Il cuore verde di Aleppo ( sul sapone di Aleppo )

Giunti ad Aleppo, uno dei piaceri della sosta in questa città millenaria è andare alla ricerca nei suoi leggendari souk del famoso sapone profumato d’alloro. L’origine della produzione del sapone d’Aleppo si perde davvero nella notte dei tempi, ma è intorno al IX sec. che se ne conosce, attraverso lo slancio dei commerci arabi, una prima grande diffusione in ambito mediterraneo. Approda anche nel sud della Francia e a Marsiglia se ne farà una versione che prevede però l’utilizzo del solo olio d’oliva.
Il rituale della lavorazione del sapone d’Aleppo si perpetua immutato ancora oggi da molti secoli.
Si ottiene unicamente da quattro ingredienti naturali: l’olio proveniente dagli estesi e floridi uliveti siriani, acqua, soda e olio di bacche di alloro raccolte nella regione intorno ad Aleppo. Nessun additivo aggiunto, nessun profumo o colorante artificiale. Il sapone di Aleppo è un prodotto biodegradabile al 100%, interamente naturale. La lavorazione inizia a novembre dopo la raccolta delle olive e prosegue fino a febbraio. Nello stesso periodo si raccolgono anche le bacche dell’alloro da cui si ottiene un profumato e preziosissimo olio. In grandi calderoni l’olio di oliva viene sottoposto per giorni ad una lenta cottura, rimestato con acqua e soda. Ottenuta la pasta verde del sapone si aggiunge poi l’olio di alloro la cui quantità variabile dal 5% al 50% ne determina sia il profumo che la qualità. Il sapone viene a questo punto colato e spianato in grandi superfici per terra, dove viene tagliato manualmente in piccoli pani a forma di cubo. (Dei deliziosi piccoli saponi decorati a forma di goccia o di stella sono invece efficacemente usati come antitarme). I lavoratori siedono a questo punto sui saponi stessi per stampigliarli, uno per uno, a mano, con il marchio della fabbrica a indicarne qualità e provenienza, quindi, prendendoli da terra li sovrappongono l’uno sull’altro a formare delle piccole torri verticali in cui rimangono ad essiccarsi per almeno 7-9 mesi. La stagionatura può prolungarsi anche per alcuni anni (non più di cinque ) dando luogo in questo caso ad un sapone ancora più pregiato. E’ in questa fase che il colore verde di questo sapone, per effetto dell’ossidazione all’aria, assume all’esterno un tono giallo bruno .
Il sapone di Aleppo, nei banchi dei souk viene spesso esposto aperto, tagliato a metà, in modo da lasciar apprezzare all’interno il cuore verde d’olivo profumato di alloro che da secoli ne tramanda inalterate la fama e le virtù.
(La Gazzetta di Istanbul, a. XVII, n. 7, luglio 2009)
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venerdì 18 settembre 2009

L'hammam delle donne

Quando si è in poche è il rumore dell’acqua che accarezza più dell’umidità tiepida. L’acqua versata dalle piatte ciotole di rame sui corpi e sul marmo, l’acqua che si raccoglie nelle conche. Ma è soprattutto quella che cade con gocce distanti dalla cupola del soffitto dove si concentrano i vapori. Tutto è così lento che si ha il tempo di seguirle mentre si staccano, si allungano e cadono lasciando una piccola eco sul marmo e nella mollezza dei corpi. In questi scrigni di placenta vaporosa le donne diventano profondamente tali, al riparo dalla presenza degli uomini e a riposo da belligeranze seduttive. Noi occidentali siamo sommersi da immagini che ci restituiscono in ogni istante l’idea di un corpo femminile perfetto, giovane, integro, chiaro, riconoscibile all’infinito, senza variazioni. L’hammam racchiude invece preziosità che abbiamo dimenticato. Quando il calore e l’acqua hanno ormai reso molli le vene e la carne, si avvicinano le donne dell’hammam che trascorrono lì la loro vita a lavare altre donne, con i capelli grondanti, con i volti segnati ed i modi ruvidi del loro lavoro. I loro corpi seminudi sono forti, massicci e i seni grandi e stanchi. Eppure sfregano sulle schiene grandi nuvole di sapone bianco. Ma è il sapone carezzevole, non le loro mani. I loro movimenti sono lontani dall’idea delle mollezze orientali con cui ci si sdraia per la prima volta sui marmi caldi dell’hammam. Servono mani forti per lavare e sfregare e chinarsi mentre i vapori caldi levano il respiro. Si capisce la loro familiarità con i corpi nudi da come si aggirano per i vari ambienti e lavorano con le loro mutande slabbrate, inutili. Qualche volta in una pausa tra turni si riuniscono per terra in una piccola sala attigua, a ridere tra loro con risate vere e a suonare. In un hammam femminile ciò che si dischiude è il corpo della donna, di ogni donna che è venuta lì a compiere un gesto semplice, umile verso il suo corpo, cioè lavarlo. Accanto alle conche di marmo dove si raccoglie l’acqua, ci sono seni che fioriscono e altri che si allungano appassiti, ma alla fine sembra che ogni donna si riconosca nell’altra, in quello che è stato o in quello che sarà e ogni sguardo in fondo è languido e distratto. Lì l’immagine del corpo femminile coincide con la naturalezza delle cose della vita, con quello che succede senza grandi rimedi a fermarne il corso. Potrebbe sorprendere vedere con quanta cura qualcuna passi il sapone tra le pieghe del suo ventre provato, ma proprio in quel gesto si manifesta in tutta la sua presenza di donna, così com’è, come può essere ognuna dietro le porte chiuse, i vestiti e le faccende che portano per le strade. Ed è così anche per i corpi giovani. Anche quelli belli non sono arroganti. Ci sarebbero troppi moniti nell’hammam.
E poi per uno sguardo femminile tutti quei seni, con le loro forme diverse, i loro nei impertinenti, i loro frequenti strabismi, sono in fondo nient’altro che mammelle. Senza gli uomini e rese larghe e morbide dai vapori, quelle sono semplicemente mammelle. Capita, talvolta, che una madre porti con sé il suo bambino. Le donne sono lì per lavarsi. Spontaneamente il pensiero va a cosa rimarrà di queste visioni in un piccolo di quattro anni nei suoi ricordi di adulto. Forse portare nella sua vita di uomo il ricordo di una schiena femminile arcuata sotto lunghi capelli grigi un giorno potrà essergli d’aiuto, anche ad amare.
http://www.premionapoli.it/2008/istambul1.html
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(La gazzetta di Istanbul, Anno XVII, n.12, dicembre 2009)

venerdì 4 settembre 2009

Il Baglio delle gazze, un esempio di recupero artistico ed etico in Sicilia ai margini di una riserva naturale.

Il recupero del rudere di quest’antica casa rurale siciliana protesa sul mare del golfo di Cofano, vicino Trapani, è stato concepito dai proprietari, Paola Lo Sciuto, artista visiva e Aldo Grompone, produttore teatrale, come un’opera a cui dedicarsi con impegno affinché la storia, le pietre, il lavoro delle mani, i ricordi personali, la natura circostante lasciassero riaffiorare la vita segreta di questo luogo. Nelle stanze e fra le stanze del Baglio delle gazze, questo da sempre il nome della casa, si aprono piccoli spazi irregolari, nascosti, inaspettati, rimasti con la loro anima contadina di una vita realmente trascorsa un tempo tra questi muri. A ciò si sono mescolati i ricordi lontani di Paola quando da bambina si perdeva negli anfratti dell’antico convento di Erice dove viveva sua zia, Suor Stellina. Il segreto dei nascondigli infantili, i segni di altri passaggi, rilasciano il loro mistero tra le pietre di questa casa che respira tra l’alito del mare, un carrubo e il profilo appuntito del monte. Qui ogni cosa è stata fatta dalle mani degli uomini, ogni mattone, ogni coppo, ogni pezzo di pietra spaccata. Così era quando ci vivevano animali e contadini e si usava quel che c’era. Paola ha posato lo sguardo oltre l’uscio, sulle sfumature cangianti della terra intorno. Ogni stanza ha pareti materne, di un colore tiepido che induce al riposo. Nient’altro che intonaco mischiato alla terra raccolta lì fuori. All’esterno i muri rosati di cocciopesto si accendono al tramonto e naturalmente tutti i cocci sono stati pestati a mano con pazienza. Certo, la delicata bellezza di Paola non ne farebbe sospettare il lavoro tenace delle braccia e la presenza caparbia sul cantiere all’alba, prima dell’arrivo dei mastri locali. Da una trave lignea intagliata proveniente da un caravanserraglio afgano ha realizzato un calco con cui ha plasmato degli splendidi mattoni che le ricordano i merletti decorativi della Chiesa Matrice di Erice. Ne ha rivestito le pareti di un incantevole, piccolo hammam in cui si è dedicata personalmente anche alla stesura del tadelakt, l’antica tecnica tradizionale a calce marocchina. Uno scrigno di voluttà dalle iridescenze turchesi e violacee incastonato al centro della casa. Le camere da letto sono di una vuota eleganza monacale. L’essenzialità del bianco predomina sullo sfondo delle nuances date dalla terra alle pareti.
E poi il legno, ma quello in cui il tempo ha trovato la sua dimora. Grandi lampade di ferro e vetro pendono dal soffitto, moltissime candele chiare. Sui muri nudi non ci sono quadri, né testiere per i letti. In verità, nell’amore per il recupero (che qui è insieme dovere etico ed esercizio estetico), Paola ha strigliato la fiancata di un vecchio carretto trovato in un ovile e con corde e drappi bianchi ne ha fatto un’unica testiera, umile e discreta. Sono pezzi di recupero anche le antiche mattonelle siciliane dell’Ottocento della cucina, alcune provenienti da una casa di famiglia, altre comprate al mercato delle pulci di Palermo. I vecchi lavabi in pietra vengono invece da Grecia e Turchia. Sono state riutilizzate persino le mensole dismesse di marmo intagliato che un tempo sorreggevano i balconi delle vecchie case siciliane e ne sono stati fatti solidi fianchi per un grande camino. La luce arriva dalle grandi porte che si aprono sul giardino e più in là sul mare. La cornice è quella della Riserva naturale di Monte Cofano. Il giardino è come un prolungamento di quel paesaggio, così quando le piccole piante selvatiche spontaneamente si riprendono un angolo in mezzo ai fiori, Paola le lascia crescere lì dove sono nate. Per lei è vitale “riportare il selvaggio”nei luoghi ed è fondamentale conoscerlo, rispettarlo, trasmetterne il valore. Immagina che la sua casa possa diventare quasi una base di servizio per la Riserva, punto di partenza di passeggiate botaniche o di trekking, non solo per i turisti, ma soprattutto per la gente del posto, per i bambini. Questa casa, d’altra parte, è divenuta fin da subito un luogo di condivisione, come dimora di charme in cui soggiornare da aprile a novembre, ma anche come centro di incontri culturali e seminari residenziali. Trasmettere la possibilità di vivere e condividere un luogo nel mistero e nella storia delle sue tracce passate, vibrante di una natura che lentamente se ne riappropria, forte del lavoro e dell’esperienza delle mani dell’uomo, riconoscente al mare, alle rocce, alla piante selvatiche… questo è il Baglio delle gazze, il sogno realizzato di Paola, il suo sogno ancora gonfio di futuro. aldo grompone, paola lo sciuto, sicilia, vacanze, visual artist, riserva naturale, monte cofano, erice, sicily, maison de charme, art de vivre, lifestyle, travel, architettura ecologica, baglio, piante spontanee, carrubo, holidays, trapani

giovedì 20 agosto 2009

L'anima magica del feltro di Oyku Thurston

La storia di Öykü Thurston, è legata alla magia del feltro fin dalla sua infanzia, quando all’età di dieci anni in Giappone comincia ad apprenderne i segreti della lavorazione. Molti anni dopo nel 2006 apre Art.I.Choke, il suo negozio-laboratorio ad Istanbul (Çukurcuma, Faikpaşa Sokuşu, n.1 http://www.artichoke212.com/).
Ancora oggi, quando parla del feltro, con i suoi grandi occhi scuri, ne evoca una dimensione quasi magica. Lavora da sola nel suo atelier, con le sue fibre naturali purissime, con il sapone d’oliva e con l’acqua calda che servono per l’infeltrimento. Dice che il feltro ha un’anima, vive, respira. Rimane incantata mentre sotto le mani ne segue le morbide rughe che si vanno formando, le venature che inaspettatamente indicano il percorso di un disegno, di una forma, e senza preavvisi danno luogo a una stola o al fiore di un copricapo. Il feltro conferisce ai suoi capi un senso di metamorfosi che annulla i confini tra balze di seta e di lana e rende impercettibile il passaggio al lino o alla canapa in accostamenti sfumati di diversi tipi di fibre. Öykü usa anche la canapa, la soia, il bambù. L’attenzione alla qualità delle fibre è massima. La lana usata è esclusivamente australiana o inglese, la seta viene comprata in Giappone. In qualche canestro sparso nell’atelier si possono vedere delle piccole matasse di lino grezzo, o dei bozzoli di seta naturale. Anche l’attenzione per la casa è molto viva nelle creazioni di Art.i.choke (bellissimi sono i tappeti e le coperte). Öykü è un architetto che ha studiato al Fashion Institute of Design and Merchandising di Los Angeles. La sede di Art.i.choke di Çukurcuma merita senz’altro una visita anche per l’atmosfera degli ambienti. Tra luminose finestre e specchi antichi, sono esposti abiti, borse, pantofole e persino alcuni piccoli saponi avvolti nel feltro come morbidi sassolini beige e bianchi.. Öykü ama ricordare quanto il feltro sia profondamente legato alle antiche tradizioni della sua terra. Un tempo, per ripararsi durante la notte, queste morbide fibre lanuginose diventavano superfici insidiose per scorpioni e sicuro rifugio per i sonni degli uomini. Dopo millenni di storia, questa tradizione artigianale che proprio nell’Asia centrale e in Turchia si è maggiormente perfezionata, diviene, nelle sapienti mani di Öykü Thurston, una preziosa fonte d’ispirazione per un’eleganza insolita, sofisticata ed anche… ecologica.
http://www.premionapoli.it/2008/istambul.html

(La gazzetta di Istanbul Anno XVII, n.3 marzo 2009)
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domenica 16 agosto 2009

Nei villaggi berberi dell'Atlante marocchino


Tutte le donne della cooperativa rurale di Agni N’Fed, avvolte nell’eleganza dei loro costumi, con i loro occhi scuri resi ancora più profondi dai tratti neri del kajal, erano un cerchio di mani, pietre, noci di argan, veli colorati che ci ha trascinato dentro la loro vita con un abbraccio di sguardi silenziosi e accoglienti. Appena arrivati alla sede di M&D, l’Ong con cui siamo partiti, abbiamo conosciuto Nourdine, nato in un piccolo villaggio berbero dell’Antiatlante marocchino. E’ stato la nostra guida preziosa in quei giorni di cammino. E’ lui che ci ha accompagnati ad Agni N’Fed, poco distante da Taliouine, per visionare il primo progetto che con la nostra scelta di viaggio avevamo contribuito a finanziare. Nourdine ci considerava non turisti, ma viaggiatori. Perché camminavamo a piedi, avevamo un mulo per qualche bagaglio, dell’acqua e poche arance comprate al suk del villaggio lasciatoci alle spalle. Preparava il tè accendendo piccoli fuochi al riparo di una roccia, in un deserto di grigi e ocra in cui sembrava che le capre brucassero solo pietre per sopravvivere. Quando scorgevamo una casba con i suoi terrazzamenti verdi di mandorli e di ulivi, sapevamo che al nostro arrivo le donne avrebbero continuato a lavorare nei campi, a trasportare fasci di erbe per gli animali e che i bambini ci avrebbero sorriso da lontano. Allora ci sentivamo davvero “viaggiatori” perché la vita quotidiana del villaggio sembrava scorrere non turbata dalla nostra presenza.
La sera Nourdine chiedeva ad una famiglia di ospitarci per la notte e qualcuno ci cedeva dei cuscini per terra e dei tappeti dello stesso colore delle capre. Nourdine ci spiegava che i Berberi del Marocco aprono le loro case a chiunque bussi alla loro porta in amicizia. Quando in una sosta all’ombra di un marabutto sbucciava un’arancia, sistemava le scorze bene in vista per le greggi che prima o poi sarebbero arrivate al seguito di un pastore nomade. Lo faceva con una grazia della condivisione che ho visto nei gesti di molti Berberi in quei giorni.
Vivere con la gente dei villaggi è un privilegio possibile grazie al Turismo responsabile. Questo stile di viaggio che cerca di arginare il più possibile gli effetti spesso devastanti del turismo di massa puntando invece su criteri di equità sociale e di rispetto culturale ed ambientale, può richiedere, naturalmente, capacità di adattamento a condizioni di vita molto semplici. Ma i viaggiatori solidali ricercano un’autenticità nella loro esperienza e considerano determinante l’incontro, tramite un mediatore culturale come per noi Nourdine, con le comunità ospitanti (ong, comunità di villaggio, associazioni contadine etc.). Nel turismo responsabile, inoltre, buona parte degli introiti va a finanziare direttamente progetti di sviluppo nelle aree visitate e la conoscenza di tali progetti diventa parte integrante del viaggio. E poi, al rientro, un viaggio solidale continua… portando acqua nei campi, garantendo un reddito alle donne, preservando le colture tradizionali, combattendo l’analfabetismo delle aree rurali, ma soprattutto formando in loco gli attori consapevoli di uno sviluppo sostenibile.
L'OLIO DI ARGAN
L’argan (argania spinosa) è un antichissimo albero endemico del sud ovest del Marocco dai cui frutti, delle piccole noci di colore giallo intenso, si ricava un prezioso olio. Le foreste di argan marocchine sono state classificate dall’UNESCO “riserva della biosfera” e, nel 2001, presidio Slow Food. L’argan è al centro della vita dei villaggi di quest’area: le foglie e la polpa delle bacche sono nutrimento per le capre che si arrampicano in cima ai rami e dalle noci le donne ricavano da millenni, attraverso una laboriosissima lavorazione con pietre e piccole macine, un olio usato sia per scopi cosmetici che alimentari (in questo caso i semi vengono tostati).
L’olio di argan ha eccezionali proprietà antiossidanti, emollienti, idratanti e lenitive ed è ricchissimo di vitamina E. Con l’olio di argan e le mandorle si prepara l’amlou che assieme al pane e al tè viene offerto nei villaggi berberi come segno di benvenuto.
(E'lifestyle, a. III, n. 9, pp. 60-63)
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martedì 16 giugno 2009

Nascondigli d'autunno ( Mine Kerse Istanbul )

Çukurcuma è uno dei quartieri più affascinanti di Beyoğlu di Istanbul, con le sue piccole strade traboccanti di oggetti di brocanterie esposti dagli antiquari, antichi hammam, gallerie d’arte e atelier di giovani artisti-designer: tutto concorre a creare un’atmosfera unica, bohémienne e raffinata. Appena imboccata Faik Paşa Sokak, uno dei primi piccoli negozi dinanzi alle cui vetrine si rimane affascinati è quello di Mine Kerse (Faik Paşa Sk. no. 1/a, tel: 0212 2493561). Da dietro i vetri si vedono i suoi cappelli, le sue borse, le scarpe, esposti con molta grazia e discrezione accanto a vecchi scrigni pieni di foglie gialle e brune e a delicati piccoli bouquet di fiori secchi. L’atmosfera è piena di beige, di nuances dai crema al marrone, dai grigi chiari ai verdi appena accennati. La stessa eleganza timida dei rami e delle foglie accartocciate che decorano la bottega. Mine crea i suoi modelli nell’atelier al piano superiore a cui si accede con una scaletta di ferro e lì, tra le stoffe ci sono altre foglie, altri piccoli steli di piante raccolte.
L’incantevole musica con cui lavora, mi dice, è senza parole perché non vuole distogliersi dal suo lavoro: anche la musica sembra avere le stesse avvolgenti tonalità ovattate del resto dell’ambiente. Ci sono dei vecchi manichini da sarto nel negozio. Mine li ha trovati da uno dei tanti piccoli antiquari di Faik Paşa, proprio fuori dalla porta della sua bottega. Sono oggetti a lei familiari fin da quando era bambina, fin da quando osservava incantata il lavoro di sua madre che cuciva abiti da sposa e di sua nonna che realizzava busti e corsetti. Un richiamo simbolico di continuità con questo passato familiare rimane ancora visibile in ognuna delle sue borse in cui vengono usate come manici, tracolle o decori le stesse corde che giravano nelle ruote delle vecchie macchine da cucire Singer. Mine ha ereditato una tradizione antica, preziosi saperi artigiani che, dopo un apprendistato e una collaborazione con il fashion designer turco Ümit Ünal, ha poi unito, nel suo atelier, ad una grande capacità creativa e ad uno stile riconoscibile e molto raffinato.
Le luci sono basse ed è come se ogni cosa rimanesse un po’ nascosta.
I suoi cappelli hanno delle grandi virgole di stoffa su un lato, come a coprire parte del viso. Mi spiega che la sensazione che li anima è quella che potrebbe provare una bambina che vuole guardare il mondo curiosa, ma di nascosto, senza farsi vedere. E’ per questo che Mine ama l’autunno e ne trasfonde i toni nelle sue creazioni. L’autunno è per lei qualcosa di protettivo, un nascondiglio rassicurante: anche il sole, come quella bambina immaginata dietro ai suoi cappelli, può nascondersi, a volte, tra le nuvole. L’estate è una bugia, mi dice. C’è un capello di un celeste chiaro ma polveroso che ha i colori di un cielo autunnale.
In futuro Mine pensa di incrementare la realizzazione di scarpe (semplici modelli dai toni neutri, delicatissimi). Ribaltando, infatti, la comune visione che attribuisce un’indiscussa centralità all’abito, per lei le scarpe o le borse non devono essere considerate “accessori”, ma veri protagonisti del vestire a cui è piuttosto il resto che deve adattarsi. Mine fa notare che una donna quando esce di casa si cambia spesso d’abito, ma non svuota la sua borsa ogni volta.


Nella sua ispirazione non ci sono richiami consapevoli a determinati stili o a periodi della storia dell’arte. Se però deve immaginare un’eco lontana per i suoi modelli, forse ritrova in essi qualcosa di medioevale. E’ una suggestione perfetta per le sue creazioni e trova riscontro in un’eleganza che non pretende di mostrarsi, ma che aspetta di farsi scoprire. Davanti alla sua bottega non c’è insegna, le sue clienti l’hanno conosciuta passando per caso per Faik Paşa o attraverso il passaparola. Quando le chiedo chi siano le sue clienti mi risponde che sono donne di tutte le età che si riconoscono in un preciso gusto e che, soprattutto, non pretendono di apparire a tutti i costi. Una lezione di vera eleganza…

(La Gazzetta di Istanbul, a. XVII, n. 1, gennaio 2009)