
I suoi abiti sembrano creati per donne sospese in un aura magica, un po’ streghe e un po’ fate. Ma Ümit smentisce subito. La sua moda insegue la vita. La magia è nella vita e non al di fuori di essa, è nelle lacrime, nella musica, nei veri amori, nel destino (per una delle sue collezioni si è ispirato alle Moire). La magia è nella bellezza che travalica l’esteriorità per comprendere la profondità della mente e le passioni del cuore. Anche Antony, dice, alludendo alla musica che scorre mentre parliamo, è la magia della vita.

Così, i tocchi fatati dei suoi abiti non aspirano al sogno, ma emergono dalla realtà vissuta. Ümit Ünal ama i segni sedimentati nelle cose e cerca di trasporli nella sua moda. Fashion designer? Preferisce definirsi un archeologo alla ricerca di dettagli del passato, di materiali vintage, di colori spenti, polverosi, dimenticati… Non a caso l’ultima collezione è stata ispirata alla comunità Amish della Pennsylvania il cui stile di vita è fermo a fine Ottocento.
Ümit Ünal ha cominciato a scrivere le sue lettere di fili cuciti sulla stoffa all’età di otto anni accanto al padre al lavoro. Lo fa ancora oggi lasciando sui suoi abiti le tracce del mestiere, con le cuciture delle imbastiture svolazzanti. È il suo modo di comunicare. In una realtà in cui tutto è prodotto e consumato rapidamente, spera che i suoi abiti realizzati
per il prêt-à-porter con la lunga cura propria dell’haute couture, aiutino a recuperare e ad assecondare il tempo della lentezza, l’unico che per Ümit conduce verso ciò che è vero e profondo. Alle pareti di Doors, sotto le grucce dei vestiti, lascia i suoi splendidi disegni e piccoli messaggi a chi legge. Su un grande tavolo, melograni, pane, pere, piccoli fiori parlano di una vita quotidiana che per Ümit, scorre lì, in quel luogo, nell’abbraccio di un lungo amore consolidato dalla conoscenza reciproca. Con lui lavora, infatti, una piccola comunità di talenti costituita da familiari e cari amici. Al piano di sotto c’è la loro cucina. Doors, è per Ümit un luogo le cui porte devono aprirsi perché tutto possa scorrere e arrivare al cuore della gente.
Per lui i luoghi sono importanti. Riconosce che la sua moda, spesso così modernamente metropolitana, ha un’anima istanbuliota. Istanbul è una città che corre verso il futuro, ma il suo enorme carico di passato piega gli opposti a unirsi e a convivere. Allo stesso modo le forme innovative delle sue creazioni si vestono di vecchi colori. E poi continuano ad andare. Quando per strada incontra una donna con addosso un suo vestito, seduta al tavolo di un bar a sorseggiare un tè, in quel momento sente il successo del suo lavoro, perché un suo abito è veramente entrato nella vita, come una cosa qualunque, come un sorriso, del cibo, un soffio di vento…(La gazzetta di Istanbul, Anno XVII, novembre 2009, n. 11)








Salvatore Messina qualche anno fa ha scelto di aprire il suo laboratorio di ceramica (Ceart) in una stradina un po’ defilata del borgo medievale di Erice. Per prima cosa c’è l’amore per la materia, per la terra lavorata con le mani, per i pigmenti di colore che aprono vie impreviste ai giochi cromatici dopo la cottura. Spesso la creta è quella impura usata nelle prime ceramiche preistoriche che Salvatore ha ritrovato attraverso i suoi studi di archeologia navale. L’osservazione del vasellame più antico gli ha confermato il suo amore per l’imperfetto. Ha ripreso l’antichissima tecnica di lavorazione della creta senza il tornio, ottenendo forme meno precise, ma più amate per le loro curve inquiete.
A ciò è arrivato passando anche attraverso lo studio del design. Il contatto con l’oggetto perfetto nella forma e la sua potenzialità seriale, lo hanno portato per contrasto, a valorizzare nelle sue maioliche l’unicità di ciò che è irregolare, impreciso, irripetibile. Nel suo lavoro lascia sempre un ampio margine di sperimentazione in cui, nonostante la conoscenza della tecnica, c’è lo spazio prezioso del fortuito, del casuale, dell’inatteso. L’effetto imprevedibile può far risplendere gli smalti di luminescenze e di sfumature tanto più preziose perché inaspettate, mentre i piccoli fallimenti consolidano l’esperienza nel trattare la materia. Nell’azzurro, nel verde, nel bianco, nel giallo passano le suggestioni della sua Sicilia e di Erice in particolare. Grandi cupole, pesci panciuti, acquasantiere, candelabri… le forme sono esagerate, traboccanti di virgole di creta, straripanti di decori e di smalti.
E’ immediato il richiamo al Barocco, ma l’intenzione dichiarata è invece quella di recuperare le deformità del Romanico, delle figure fantastiche e mostruose a guardia delle cattedrali.
Così anche le icone dipinte nella sua bottega, che riprendono la tradizione greco-ortodossa della sua famiglia materna, di origine croata.
Giunti ad Aleppo, uno dei piaceri della sosta in questa città millenaria è andare alla ricerca nei suoi leggendari souk del famoso sapone profumato d’alloro. L’origine della produzione del sapone d’Aleppo si perde davvero nella notte dei tempi, ma è intorno al IX sec. 



I loro corpi seminudi sono forti, massicci e i seni grandi e stanchi. Eppure sfregano sulle schiene grandi nuvole di sapone bianco. Ma è il sapone carezzevole, non le loro mani. I loro movimenti sono lontani dall’idea delle mollezze orientali con cui ci si sdraia per la prima volta sui marmi caldi dell’hammam. Servono mani forti per lavare e sfregare e chinarsi mentre i vapori caldi levano il respiro. Si capisce la loro familiarità con i corpi nudi da come si aggirano per i vari ambienti e lavorano con le loro mutande slabbrate, inutili. Qualche volta in una pausa tra turni si riuniscono per terra in una piccola sala attigua, a ridere tra loro con risate vere e a suonare. In un hammam femminile ciò che si dischiude è il corpo della donna, di ogni donna che è venuta lì a compiere un gesto semplice, umile verso il suo corpo, cioè lavarlo. Accanto alle conche di marmo dove si raccoglie l’acqua, ci sono seni che fioriscono e altri che si allungano appassiti, ma alla fine sembra che ogni donna si riconosca nell’altra, in quello che è stato o in quello che sarà e ogni sguardo in fondo è languido e distratto.
Lì l’immagine del corpo femminile coincide con la naturalezza delle cose della vita, con quello che succede senza grandi rimedi a fermarne il corso. Potrebbe sorprendere vedere con quanta cura qualcuna passi il sapone tra le pieghe del suo ventre provato, ma proprio in quel gesto si manifesta in tutta la sua presenza di donna, così com’è, come può essere ognuna dietro le porte chiuse, i vestiti e le faccende che portano per le strade. Ed è così anche per i corpi giovani. Anche quelli belli non sono arroganti. Ci sarebbero troppi moniti nell’hammam.
























